La fiaba, ed in questo concordano scrittori e studiosi di diversa estrazione disciplinare, nonostante la sua dimensione fantastica, è fortemente correlata alla vita vera, così problematica, difficile e conflittuale nella sua essenza.
M. Lüthi sottolinea come la fiaba popolare europea, a differenza della leggenda, non intenda interpretare, spiegare, abbellire o trasfigurare il mondo. Essa quindi non intende mostrarci come le cose dovrebbero andare nel mondo, quanto piuttosto come esse stanno in realtà. La sua tipica caratteristica consiste quindi nel riuscire a rappresentarle in modo trasparente e chiaro, mentre nella vita esse appaiono intricate e complesse. La fiaba «non è la poesia di come dovrebbe essere il mondo, nel senso che ce ne mostra uno solamente possibile, un mondo che - contrariamente a quello reale - è così come dovrebbe essere, e sul quale si misura il mondo reale (...); non simula innanzi ai nostri occhi un bel mondo nel quale, per alcuni attimi, possiamo ristorarci lo spirito, dimenticando ogni altra cosa (...). La fiaba intende piuttosto contemplare ed esprimere con le parole come le cose stanno in realtà in questo mondo (...), non ci mostra un mondo in ordine, ci mostra il mondo in ordine. (...) Anche agli orrori e le brutture della vita (morti, atrocità, prove) trovano una loro collocazione, cosicché tutto risulti in ordine» (Lüthi, 1982). Bruno Bettelheim, che ha analizzato alcuni racconti fiabeschi con criteri psicoanalitici, ritiene che la fiaba pone gli adulti ed i bambini di fronte ai principali problemi esistenziali, cioè l'amore, la gelosia, l'abbandono, la separazione, il bisogno di essere amato, la paura di non essere considerato, la vecchiaia, la morte, e lo fa in un modo chiaro, essenziale e conciso (Bettelheim, 1982). Ed il messaggio che essa può trasmettere, ai grandi ma soprattutto ai piccoli, è «che la lotta contro le gravi difficoltà della vita è inevitabile, è una parte intrinseca dell'esistenza umana, che soltanto chi non si ritrae intimorito ma affronta risolutamente avversità inaspettate e spesso immeritate può superare tutti gliostacoli e alla fine uscire vittorioso (...); che una vita gratificante e positiva è alla portata di ciascuno nonostante le avversità, ma soltanto se non si cerca di evitare le rischiose lotte senza le quali nessuno può mai raggiungere una vera identità» (Bettelheim, 1982).
Pure lo scrittore Italo Calvino, nell’introduzione alla sua raccolta di Fiabe Italiane, ritiene che le fiabe sono vere, in quanto forniscono in forma simbolica una spiegazione generale della vita (Calvino, 2002). Infatti esse costituiscono una sorte di «catalogo dei destini che possono darsi ad un uomo e ad unadonna» nel corso della loro esistenza, «dalla nascita che sovente porta con sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano» (Calvino, 2002). Nei racconti fiabeschi, sottolinea Calvino, si ritrovano tutti i grandi problemi e le difficoltà esistenziali che gli esseri umani hanno incontrato ed incontreranno nel loro cammino terreno. A livello più generale essi raccontano
«la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale, nonché la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini di una dialettica interna ad ogni vita»(Calvino, 2002). In essi si narra anche l’eterna lotta tra il bene e il male, tra la bontà e la cattiveria, tra la vita e la morte, tra la fortuna e le avversità, nonché il continuo conflitto umano tra il condizionamento e la libertà, mettendo in rilievo «la comune sorte (degli uomini) di soggiacere a incantesimi, cioè di essere determinati da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo compiuto per liberarsi e autodeterminarsi, inteso come dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando». In questa narrazione di origine popolare si trova racchiusa inoltre tutta la filosofia di vita della povera gente, che si svolge, come sottolinea Dino Coltro, «tra due estremi contrapposti: la paura della morte, della fame, della miseria, del proprio “essere uomini” dentro un destino prefissato e la speranza nella vita eterna, nella buona sorte, cercata nella fortuna, assicurata dal lavoro, confermata dal guadagno, senza rifiutare le prove, la fatica, il dolore» (Coltro, 1987).
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