sabato 25 giugno 2011

GIUSEPPE 'A VERETÀ

GIUSEPPE 'A VERETÀ
(Versione raccolta in Pomigliano d'Arco)

'Na[2] vota nce steva 'na mamma e teneva[3] 'nu figlio, ca ssi chiammava Giuseppe; e pecche nu' diceva nisciuna[4] buscìa 'o[5] mettette nomme Giuseppe 'a Veretà. 'Nu juorno, ammente 'o stava chiammanno, ssi truvò a passa' 'o Re; e, verenno, ca chella mamma 'o chiammava accussì,[6] li spiava:[7]
- "Neh, pecchè 'o chiammi Giuseppe 'a Veretà?"
- "Pecchè nu' dice nisciuna buscìa." - Allora 'o Re decette, che 'o vuleva cu' isso[8] e 'o mettette a guardà 'e bacche. E ogne matina Giuseppe sse presentava 'ô[9] Re e deceva: - "Servo di sua Maestà" - 'O Re respunneva: - "Addio, Giuseppe 'a Veretà. Comme stanne 'e bacche?" - "Fresche e chiatte.[10]" - "Comme stanno 'e bitelle?" - "Fresche e belle" - [** "]Comme sta 'o toro?" - "Ancora." - E accussì faceva ogne matina. E 'o Re 'o ludava 'nnanze a tutt' 'e cavalieri, tanto, ca chisti sse sentevene currivo[11]; e 'nu juorno, pe' fa' truvà' Giuseppe busciardo, nce mannarene 'a ronna, che cu' 'e parole ssoje duveva fa' accirere 'ô toro. Giuseppe tanto fu priato, che l'accerette; ma po', sse truvava 'mbrugliato, comme avev'a ricere 'ô Re. Mettette 'o cappotto ssujo 'ngoppa a 'na seggia; e fingeva, ca chillo fosse 'o Re: e diceva: - "Servo di sua Maestà = Addio, Giuseppe 'a Veretà. Comme  stanno 'e bacche? = Fresche e chiatte. = Comme 'e bitelle? = Fresche e belle. = Comme 'o toro? = Ancora. = Ma no; nu' ba buono! po' rico 'a buscia! Quanno 'o Re mme demanna comme sta 'o toro, io nce 'o[12] dico ch'è muorto". - Sse presentava 'ô Re e decette: - "Servo di sua Maestà" - "Addio, Giuseppe 'a Veretà. Comme stanno 'e bacche?" - "Fresche e chiatte." - "Comme 'e bitelle?" - "Fresche e belle." - "Comme 'o toro?" - "Ssua Maestà, è benute 'na ronna; e, co' 'e maniere ssoje, mm'ha fatto ammazzà' 'ô toro. Perdunateme". - 'O Re respunnette: - "Bravo Giuseppe 'a Veretà." - Chiammava 'e cavalieri ssuoi; e le facette[13] canoscere, comme chisto aveva ritto nisciuna buscìa ancora. E accussì Giuseppe rummase sempe c' 'o Re; e iè cavalieri rummanettere to' to'[14], pecchè non avevene ricavate niente 'e chello, che avevene penzate.



NOTE

[1] Vedi: - I. - Sicilianische Märchen. | Aus dem Volksmund gesammelt | von Laura Gonzenbach. | Mit Anmerkungen Reinhold Köhlers und einer Einleitung herausgegeben | von | Otto Harlwig | Erslr Theil. | Mit dem Portrait einer Märchenerzählerin || Leipzig | Verlag von Wilhelm Engelmann | 1870 (in 8. di LXVI-368 pagg. 9 oltre un ritratto; e Zweiter Theil, ibid. di IV-263 pagg. ed un altro ritratto). La novella VIII, Bauer Wahrhaft, cioè Massaru Verità, ha una lezione più compiuta della nostra, essendo particolareggiata la seduzione. La moglie del cortigiano, il quale ha scommesso il capo col Re, che Massaru Verità mentirebbe, si finge incinta e di aver voglia d'un fegato di castrato; ed il povero zugo, vedendola bella e contigiata e con una stella di diamanti in fronte, finalmente cede. - II. - Nell'opera Fiabe | Novelle e Racconti | popolari Siciliani | raccolti ed illustrati | da | Giuseppe Pitré | Con discorso preliminare, | Grammatica del dialetto e delle parlate siciliane, | Saggio di novelline albanesi di Sicilia | e Glossario || Volume primo || Palermo | Luigi Pedone Lauriel, editore | 1875 (e Volume secondo, terzo e quarto) la novella LXXVIII, Lu Zu Viritati. - III. - Appo lo Straparola, la favola V della notte III: - "Isotta, moglie di Lucaferro di Albani da Bergamo, credendo con astuzia gabbare Travaglino, vaccaro d'Emiliano, suo fratello, per farlo parer bugiardo, perde il poder del marito; e torna a casa con la testa di un toro dalle corna dorate, tutta vergognata." - IV. - La novella intitolata Don Peppino e pubblicata nel numero V dell'Anno II del periodico La Scuola Italica (Napoli, 23 Agosto 1874). - V. - Le tre Maruzze | Novella trojana | Da non mostrarsi alle Signore || Troja, MDCCCLXXV | Esemplari XXVIII (Zizze toste) - Riprodurremo qui la versione dello Straparola; che il lettore meno agevolmente potrebbe procurarsi di quelle edite dalla Gonzenbach e dal Pitré, e che non è impresentabile per oscenità, come Le tre Maruzze. - "In Bergamo, valorose donne, città antica nella Lombardia, fu (non è già gran tempo) un huomo ricco et potente, il cui nome era Pietromaria di Albani. Costui haveva duo figliuoli, l'uno de' quai Emiliano, l'altro Lucaferro si chiamava. Appresso questo, egli haveva duo poderi, dalla città non molto lontani; de' quai l'uno chiamavasi Ghorem, et l'altro Pedrench. I duo fratelli, cioè Emiliano et Lucaferro (morto Pietromaria, suo padre) tra loro divisero i poderi; et a Emiliano per sorte toccò Pedrench, et a Lucaferro Ghorem. Haveva Emiliano un bellissimo gregge di pecore, et un armento di giovenchi, et una mandra di fruttifere vacche; de quali era mandriale Travaglino, hvomo veramente fedele e leale; nè, per quanto egli haveva cara la vita sua, havrebbe detta una bugia; et con tanta diligenza custodiva l'armento et la mandra sua, che non aveva pari. Teneva Travaglino nella mandra delle vacche molti tori, tra quai ve n'era uno molto vago a vedere, et era tanto grato ad Emiliano, che d'oro finissimo gli aveva fatte dorare le corna. Nè mai Travaglino andava a Bergamo, che Emiliano non gli addimandasse del suo toro dalle corna d'oro. Hora avenne, che trovandosi Emiliano a ragionamento con Lucaferro suo fratello, et con alcuni suoi domestici, sopragiunse Travaglino, il quale fece cenno ad Emiliano di voler con esso lui favellare. Et egli, levatosi dal fratello et dagli amici, andossene là, dove era Travaglino; et lungamente ragionò con esso lui. Et perciocchè Emiliano più fiate haveva fatto questo atto, di lasciare gli amici et parenti suoi et girsene a ragionare con un mandriale, Lucaferro non poteva in maniera alcuna questa cosa patire. Laonde, un giorno, acceso d'ira et di sdegno, disse ad Emiliano: Emiliano, io mi maraviglio molto di te, che tu facci maggior conto di un vaccaro et di un furfante, che di un tuo fratello et di tanti tuoi cordiali amici. Imperciocchè, non pur una volta, ma mille (se tante si può dire,) tu ne hai lasciati nelle piazze e ne giuochi, come bestie, che vanno al macello, e tu ti sei accostato a quel grosso et insensato Travaglino, tuo famiglio, per ragionare con esso lui, ch'el par, che tu habbi a fare le maggior facende del mondo, et non di meno non vagliono una brutta. Rispose Emiliano: Lucaferro, fratello mio, non bisogna, che sì fieramente tu ti accorrocci meco, rimproverando Travaglino con disoneste parole; perciocchè  egli è giovane da bene. Et emmi molto caro: sì per la sofficienza sua; sì anche per la lealtà, ch'egli usa verso me; sì ancora, perchè in lui è una special et singolar virtù, che, per tutto l'aver del mondo, ei non direbbe una parola, che bugiarda fusse. Ed, oltre ciò, egli ha molte altre conditioni, per le quali lo tengo caro. E però non ti maravigliare, se io l'accarezzo et hollo grato. Udite queste parole, a Lucaferro crebbe maggior sdegno. Et cominciò l'uno et l'altro moltiplicare in parole, et quasi venire alle arme. Et perchè (si come è detto di sopra) Emiliano sommamente commendava il suo Travaglino, disse Lucaferro ad Emiliano: Tu lodi tanto cotesto tuo vaccaro di sofficienza, di lealtà e di verità. Et io ti dico, ch'egli è il più insofficiente, il più sleale et il più bugiardo huomo, che mai creasse la natura; e mi offero di fartelo vedere, et udire, che in tua presenza egli ti dirà la bugia. Et fatte molte parole tra loro, finalmente posero pegno i loro poderi concordi in questo modo: che, se Travaglino dirà la bugia, il podere d'Emiliano sia di Lucaferro; ma, se non sarà trovato in bugia, il podere di Lucaferro di Emiliano sia. Et di questo (chiamato un notaio) fecero uno stromento publico con tutte quelle solennità, che in tal materia si richieggono. Partitosi l'uno da l'altro, et già passata la loro ira et sdegno, Lucaferro cominciò pentirsi del pegno, che egli aveva messo, et dello stromento per man di notaio pregato, et di tal cosa tra sè stesso si rammaricava molto; dubitando forte, di non restare senza podere, col quale e se et la famiglia sua sostentava. Hor essendo a casa Lucaferro, et vedendolo la moglie, che Isotta si chiamava, sì malinconioso stare, et non sapendo la cagione, dissegli: O marito mio, ch'havete voi, che così mesto e malinconioso vi veggio? A cui rispose Lucaferro: Taci per tua fe; et non mi dar maggior noia di quella, ch'io ho. Ma Isotta, desiderosa di saperlo, tanto seppe fare e dire, che dal marito il tutto intese. La onde, voltatosi col viso allegro verso di lui, disse: È adunque cotesto il pensiero, per cui tanto affanno e tanto rammaricamento vi ponete? State di buon animo, che a me basta il cuore di far sì, che, non che una, ma mille bugie fiano da Travaglino al suo patrone dette. Il che intendendo Lucaferro, assai contento rimase. Et perchè(3) Isotta chiaramente sapeva, che 'l toro dalle corna d'oro ad Emiliano suo cognato era molto caro, ella sopra di quello fece il disegno. Et vestitasi molto lascivamente e leccatosi il viso, soletta uscì di Bergamo. Et andatasene a Pedrench, dove era il poder di Emiliano, et entrata in casa, trovò Travaglino, che faceva del cascio e delle ricotte. E salutatolo, disse: Travaglino mio, son qui venuta per visitarti, e bere del latte, e mangiare delle ricotte teco. = Siate la ben venuta, disse Travaglino, la mia patrona. E fattela sedere, parecchiò la mensa; e recò del cascio pecorino et altre cose per honorarla. E perchè egli la vedeva sola, e bella, et non consueta venir a lui, stette sospeso molto; et quasi non poteva persuadersi, ch'ella fusse Isotta, moglie del fratello del suo patrone. Ma pur, perciocchè più volte veduta l'haveva, la carezzava et honorava molto, sì come a tanta donna, quanto quella era, conveniva. Levata da mensa Isotta, et vedendo Travaglino affaticarsi nel far il cascio et le ricotte, disse: O Travaglino mio, voglio ancor io aiutarti a far del cascio. Et egli: Quello, che a voi aggrada, Signora, rispose. E senza dir più altro, alzatesi le maniche sino al cubito, scoperse le bianche e morbide e ritondette braccia, che candida neve parevano; e con essolui fieramente si affaticava a far il cascio; e sovente li dimostrava il poco rilevato petto, dove dimoravano due poppoline, che duo pometti parevano. Et oltre ciò, astutamente tanto approssimava il suo colorito viso a quello di Travaglino, che quasi l'uno con l'altro si toccava. Era Travaglino (quantunque fosse di vacche custode) huomo più tosto astuto, che grosso. Et vedendo i portamenti della donna, che dimostravano il lei lascivo amore, andava con parole et con sguardi intertenendola, fingendo tuttavia di non intendersi di cose amorose. Ma la donna, credendo lui del suo amore essere acceso, et fieramente di lui si innamorò, che in stroppa tenere non si poteva. E quantunque Travaglino se ne avvedesse del lascivo amor della donna, non però osava dirle cosa alcuna; temendo sempre di non perturbarla et offenderla. Ma la già infiammata donna, accortasi della dappocaggine di Travaglino, dissegli: Travaglino, qual è la causa, che così pensoso ti stai, e non ardisci meco parlare? Ti sarebbe per aventura venuto alcuno desiderio di me? Guarda bene, et non tenere il tuo volere nascosto, perciocchè te stesso offenderesti, et non me, che sono ai tuoi piaceri e comandi. Il che udendo Travaglino, molto si rallegrava; e faceva sembiante di volerle assai bene. La sciocca donna, vedendolo già del suo amore acceso, et parendole già esser tempo di venir a quello, ch'ella desiderava, in tal maniera gli disse: Travaglino mio, io vorrei da te un gran piacere. Et quando me lo negasti, direi ben certo, che poco conto facesti dell'amor mio; e forse saresti cagione della rovina, anzi della morte mia. A cui rispose Travaglino: Io sono disposto, Signora, di ponere per amor vostro la propria vita, non che la robba; et avenga, che voi cosa difficile mi comandaste, nondimeno l'amore, ch'io vi porto, et voi verso me dimostrate, facilissima la farebbe. Allora Isotta, preso maggior ardire, disse a Travaglino: Se tu mi ami (come credo, o parmi di vedere) hora lo conoscerò. = Comandate pur, Signora mia, rispose Travaglino, che apertamente lo vederete. = Altro da te non voglio, disse Isotta, se non il capo del toro dalle corna d'oro; et tu disponi poi di me, come ti piace. Questo udendo Travaglino, tutto stupefatto rimase; ma, vinto dal carnale amore e dalle lusinghe dell'impudica donna, rispose: Altro non volete da me, Signora mia? non che il capo, ma il busto, e me stesso pongo nelle vostre mani. E questo detto, prese alquanto d'ardire; et abbracciò la donna; et seco consumò gli ultimi doni d'amore. Dopo, Travaglino, troncato il capo del toro, et messo in una sacchetta, ad Isotta il presentò. La qual contenta, sì per lo desiderio adempito, sì anche per lo piacere ricevuto, con più corna, che podere, a casa se ne ritornò. Travaglino (partita che fu la donna) tutto sospeso rimase; et cominciò pensare molto, come fare dovesse per iscusarsi della perdita del toro dalle corna d'oro, che tanto ad Emiliano suo padrone piaceva. Stando adunque il misero Travaglino in sì fatto tormento d'animo, nè sapendo, che si fare o dire, alfine imaginossi di prendere un ramo di albero rimondo, e quello vestire di alcuni suoi poveri panni, et fingere, che egli fusse il patrone, et isperimentare, come far dovesse, quando sarebbe nel cospetto di Emiliano. Acconciato adunque il ramo di albero in una camera con la baretta in testa et con gli vestimenti in dosso, usciva Travaglino fuori dell'uscio della camera. Et dopò dentro ritornava; et quel ramo salutava, dicendo: Buongiorno patrone. Et sè stesso rispondendo, diceva: Benvenga Travaglino, et come stai? che è de fatti tuoi, che, già più giorni, non ti hai lasciato vedere? = Io sto bene, rispondeva egli, sono stato occupato assai, che non puoti venire a voi. = Et come sta il toro dalle dorate corna? diceva Emiliano. Et egli rispondeva: Signore, il toro è stato nel bosco da lupi divorato. = Et dove è la pelle, et il capo colle corna dorate? diceva il padrone. Et qui restava, nè più sapeva che dire; et addolorato, ritornava fuori. Dopò, se ne ritornava dentro la camera, e da capo diceva: Iddio vi salvi, padrone. = Ben ti venga, Travaglino, come vanno i fatti nostri, e come sta il toro dalle dorate corna? = Io sto bene, signore; ma il toro un giorno mi uscì dalla mandra, et combattendo con gli altri tori, fu da quelli sì sconciamente trattato, che ne morì. = Ma dove è il capo, et la pelle? et egli non sapeva più che rispondere. Questo avendo fatto più volte Travaglino, non sapeva trovare iscusatione, che convenevole fusse. Isotta, che già era ritornata a casa, disse al marito: Come farà Travaglino, se egli si vorrà iscusare con Emiliano suo patrone della morte del toro dalle corna d'oro, che tanto gli aggradiva, che non li pianti qualche menzogna? Vedete la testa, che meco ho recata in testimonianza contra lui, quando dicesse la bugia. Ma non li raccontò, come gli aveva fatte due corna maggiori di quelle d'un gran cervo. Lucaferro, veduta la testa del toro, molto si rallegrò, pensando della questione esser vincitore; ma il contrario (come di sotto intenderete) gli avenne. Travaglino, avendo fatte più proposte et risposte con l'uomo di legno, non altrimenti, che se fusse il proprio patrone, con cui parlasse, et non vedendo niuna di loro riuscire secondo il desiderio suo, determinò senza altro pensamento di andare dal patrone, intravenga ciò, che si voglia. Et partitosi, et andatosene a Bergamo, trovò il patrone; et quello allegramente salutò. A cui, reso il saluto, disse: E che è dell'anima tua, Travaglino, che già sono passati tanti giorni, che non sei stato qui, nè si ha havuto novella alcuna di te? Rispose Travaglino: Signore, le molte occupationi mi hanno intertenuto. = Et come sta il toro dalle corna dorate? disse Emiliano. Allhora Travaglino; tutto confuso, et venuto nel viso come bragia di fuoco, voleva quasi iscusarsi, et occultare la verità. Ma, perchè temeva di mancar all'honor suo, prese ardimento; et cominciò la historia di Isotta, e li raccontò a punto per punto tutto quello, ch'egli aveva fatto con esso lei, et il successo della morte del toro. Emiliano, questo intendendo, tutto stupefatto rimase. Onde, per aver Travaglino detto la verità, fu tenuto uomo veridico e di buona estimatione, et Emiliano restò vittorioso del podere, et Lucaferro cornuto, e la ribalta Isotta, che credeva altrui gabbare, gabbata et vergognosa rimase".

[2] Notevole è la tendenza, che hanno i dialetti nostri, a distinguere uno ed una, articoli, da uno ed una, numerali. I milanesi han fatto dei primi on ed ona e de' secondi vun e vunna, (vœunna). I napoletani adoperano come articoli 'no (nu) e 'na; ed uno ed una per numerali).

[3] Teneva, alla spagnuola, per avere. Ad una napolitana, che diceva: - "Tengo un gran mal di capo;" - rispondeva un fiorentino: - "O s'io non glielo veggo in mano? Me lo mostri un po' per vedere". - A Bertrando S...., che porgeva un francescone ad una cambiamoneta, dicendole: - "Tieni la moneta?" - venne risposto: - "O che me l'ho a tener davvero, la moneta?". - La prima e di teneva, le due di veretà e generalmente tutte le e disaccentate non finali sono così tenui e strette, da confondersi quasi, come da alcuni effettivamente si confondono con l'i.

[4] Nisciuna, nessuna. Giordano Bruno adopera spesso questo napoletanesimo.

[5] 'O mettette nomme, gli (lo) mise nome; Giuseppe 'a Veretà, Giuseppe la Verità. Il De Ritis scrive sub LA: - "Spesso,nella pronunzia, la L viene totalmente abolita, e talvolta benanche nella scrittura, comunque i buoni autori se ne guardino, specialmente nella prosa; e se accade, che l'usino in poesia, a mera licenza o (a dir meglio) poltroneria, vuole attribuirsi. Pure, non mancano scrittori, che di questa aferesi si compiacciono, la quale il dialetto napoletano col comune italico potrebbe mettere a paragone, come il portoghese col castigliano; e, nella veneranda archeologia, come l'attico col comun greco. Checchè ne sia, il Del Piano non altramente elaborava le sue canzoncine spirituali, se non con questo sistema:

"Chi p' 'a famme ss'allamenta,
Chi p' 'a sete e chi p' 'o fuoco...
Che seccà' ve pozza 'a lengua...

"E così sempre. Egli è chiaro, che gli articoli, così attenuati alla semplice vocale, esigono uno strascico e quasi una duplicazione di pronunzia". - Il cavaliere Raffaele D'Ambra scrive poi: - "L'a, in luogo dell'articolo la, si tollera nel dialetto parlato; ma è un errore nella scrittura, dove si ha a segnare tutto intero". - "Grecamente del la articolo, mangiasi l'l nella pronunzia plebea. Esempii: A mamma, la mamma; a scuffia, la cuffia. Ciò sarebbe errore nella scrittura". - Sarebbe errore, è errore! perchè? Se così si dice, e non altrimenti? E che c'entra la Grecia? Ci avevamo la lingua scritta e la parlata: ora, il D'Ambra ci vuol regalare anche il dialetto scritto ed il parlato, tanto per aumentar la confusione. Questo dialetto scritto, diverso dal parlato, non altro sarebbe se non un gergo convenzionale: e tale è pur troppo; giacchè piace al più gli scrittori vernacoli di storpiar del pari la lingua aulica e lo idioma domestico. In Napolitano si dice quasi sempre 'a e non la; 'o (oppure 'u) anzichè lo e la, semprechè la parola seguente cominci per consonante. Se ne' canti popolari si usasse lo e la, i versi zoppicherebbero quasi tutti. Così pure si dice 'e bacche e non le bacche (le vacche); 'e bitelle e non le bitelle (le vitelle).

[6] Accussì, così.

[7] Li spiava, le chiedeva. Spià', chiedere, domandare, interrogare. Vedi Varie Poesie | di | Niccolò Capassi | Primario Professore di Leggi | nella R. Università di Napoli || In Napoli MDCCLXI | Nella stamperia Simoniana | Con permesso de' Superiori. Achille dice a Grammegnone (Agamennone):

Spia un a uno (e bide che te dice):
Sì li trojane l'erano nemmice?

Gregorio De Micillis scrive: - "Nell'edizione Simoniana delle Poesie varie di questo autore, e ne' suoi Sonetti in dialetto patrio, da me pubblicati l'anno 1789, leggesi Capassi, e non Capasso, e male; perchè in tutte le sue lettere, ed in altre scritture di sua mano, egli sottoscrisse sempre il suo cognome coll'o in fine e nommai coll'i, come, affettando un certo fiorentinismo, sogliono praticare i moderni. Il nostro Grandi, nell'eccellente trattato dell'Origine de' cognomi gentilizî, condanna questo abuso e ne fa vedere l'irragionevolezza con pruove, che non ammettono risposta. Vedilo alla pag. 284 e seguenti della detta Opera." - Così può leggersi ne Le opere | di | Niccolò Capasso | la maggior parte inedite | Ora per la prima volta con somma diligenza raccolte, | disposte con miglior ordine | e di Note | ed Osservazioni arricchite | da Carlo Mormile |. Si è aggiunta in questa prima compiuta edizione | la vita dell'autore nuovamente scritta | da Gregorio De Micillis. | Volume Primo. || In Napoli MDCCCXI. | Presso Domenico Sangiacomo | Con licenza de' Superiori. Pure, malgrado la disapprovazione del Grandi e malgrado tutte le buone ragioni, che consiglierebbero a mantenere inalterati i cognomi, li vediamo continuamente alterati da noi e nella scrittura e nella pronunzia, o per fuggire equivoci osceni, o per ingentilirli(4) e per ravvicinarli al tipo aulico, o per altre cagioni. Così, per esempio, il sommo storico Carlo Troya, voleva il suo scritto con l'y anzichè con l'i o con la j. Le famiglie Culosporco, Stracazzi, Figarotta, si fanno ora chiamare Colosporco, Stragazi, Fecarròta. Il commendator Marvasi, era figliuolo e fratello di Marvaso. Un Torelli, di origine albanese, giornalista, padre di un noto commediografo, è fratello e zio e figliuolo di tanti Turiello. Conosco un Rossi, ch'era fino a pochi anni fa semplicemente Russo. Gl'illustri Silvio e Bertrando Spaventa appartengono ad una famiglia De Laurentiis, la quale cominciò a farsi chiamare De Laurentiis-Spaventa, quando entrò in essa l'ereditiera della famiglia Spaventa; in poche generazioni il cognome originario s'è obliterato ed è stato surrogato del tutto dallo avventizio. Mille altri casi simili potrei citare.

[8] Isso, masch. sing. Iessa femm. sing.

[9] Ssi prisintava 'ô Re; dicette 'nfacce 'â mugliera (Vedi più giù nel conto intitolato: 'E corna). Quell'ô e quell'â si hanno a pronunziar lunghe e sono contrazioni di a 'o ed a 'a, cioè allo ed alla. Nel racconto di Viola troveremo: e 'o dicette 'ê sore; cioè: alle sorelle. 'Ê, contrazione di a 'e.

[10] Chiatte, grasse. Evidentemente da platus eia, u: largo, amplo. Anche i greci chiamavano plateis i corpulenti, gli aitanti della persona. Nunziante Pagano, parafrasando la Batracomiomachia d'Omero, fa dire a Sfrattafrecole:

E a 'st'ommo, a 'st'ommo dico, gruosso gruosso,
Co' piede e gamme e corpo accossì fatto,
Ch'affronte a nuie porrisse dì' coluosso,
Ossuto o luongo o curto o sicco o chiatto,
'Ncopp'a lo lietto saglio, niente scuosso,
E lieggio bello mme l'accosto guatto,
E doce doce, se dorme cojeto,
Le roseco lo dito e no' lo sceto.

[11] Currivo, sdegno. La parola ha anche altri sensi, per esempio, quello, che si rileva dal seguente brano del Fuggilozio del Costo: - "Vengon biasimati coloro, che vergognandosi di negare a chiunque lor dimanda, patono in quell'istante la penitenza del lor fallo, perchè, donando a chi non vorrebbono, donano con pentimento e con dispiacere grandissimo. E, quel ch'è peggio, si è, che questi tali non sono poi meritevoli del titolo della liberalità, sì come dottamente vien definito da Aristotele, ma son chiamati, com'usa in Napoli, corrivi." -

[12] Nce 'o, (ce lo) glielo; ma s'ha a pronunziare(5) nciò, in una sillaba e con l'o stretta.

[13] Le facette, fece loro.

[14] Con queste interjezioni si accompagna quel gesto volgare, che indica un palmo di naso. Quindi - "rummannettero to to" - equivale a: - "rimasero con un palmo di naso."

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